Meditazione per il Ritiro di Quaresima per i sacerdoti e i diaconi della Diocesi di Alba

08-03-2022

Carissimi ho pensato quest’anno di essere io ad offrire alcuni pensieri per il nostro ritiro di quaresima in preparazione alla S. Pasqua.

Ho tratto questi pensieri da alcune letture che ho fatto in questo ultimo periodo e vorrei condividerli con voi.

Inizierei con la lettura di un brano pasquale, che vorrei facesse da sfondo alla riflessione che intendo fare, si tratta del passo evangelico di Gv. 21:

15 Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16 Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». 17 Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. 18 In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». 19 Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi».

Questo brano, che abbiamo letto tantissime volte, ha come habitat il lago di Tiberiade.

È un lago molto grande, tanto da essere chiamato “mare di galilea”, frequentato dagli apostoli in quanto pescatori, per alcuni di loro è proprio in quel luogo che è avvenuta la prima chiamata, come ci racconta l’evangelista Marco:

Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Venite dietro di  me, vi farò diventare pescatori di uomini.” E subito lasciarono le reti e lo seguirono. ( Mc 1, 16 -18)

Io ho avuto la possibilità di andarci molte volte sulle rive del lago di Tiberiade, come credo anche molti di voi, e ho sempre meditato questo passo di vangelo, immaginando Gesù che cammina con Pietro in un dialogo e una relazione a tu per tu straordinaria, che ha obbligato Pietro ad aprirsi di fronte alle domande incalzanti del Signore e fare verità su se stesso e nel riporre in Gesù la risposta ai suoi limiti e alle sue fragilità quando dice:  ”Signore tu sai tutto…”.

Vedete io sacerdote, io vescovo posso nascondermi, posso fingere, posso apparire diverso agli occhi degli altri, dei confratelli, del vescovo, avere anche una doppia vita ecc…, ma non nei confronti di Gesù, Lui sa tutto di me!

Ciò che salva la chiamata di Pietro è in fondo la ragione unica su cui poggia ogni scelta vocazionale: l’amore: “tu sai che ti amo!”.

Ciò che mi aiuta nei momenti di difficoltà e scoraggiamento è tornare con la mente e il cuore alla fonte della mia chiamata, al momento in cui come Pietro, ho detto al Signore “tu sai che ti amo!”.

Se il mio cuore è indiviso ed è tutto per Lui, non c’è spazio per altro, per altri o per altre.

In questo tempo ho letto un piccolo libro scritto da un Vescovo francese, Gerard Daucourt, emerito di Nanterre, dal titolo “Preti spezzati” (EDB), con la prefazione del Cardinal Parolin.

Questo vescovo attingendo dalla sua esperienza indica quali sono, in gran parte, le cause che portano i preti a “spezzarsi”, uso questo termine in sintonia col titolo del libro.

Provo ad elencarle prendendole dal testo:

 “Il sovraccarico di lavoro, la messa in discussione della figura del prete in una società largamente desacralizzata, il numero crescente di battezzati che non vivono la fede cristiana ma richiedono “pratiche” religiose sono, a mio avviso, le tre cause più importanti del malessere o dei drammi che vivono alcuni preti”.

A questa analisi, frutto di una inchiesta fatta in Francia nel dicembre 2020, il vescovo Daucourt conclude:

“La maggioranza dei preti, esaminando le tre cause che ho ricordato, affronta queste situazioni grazie ad una vita spirituale forte che nutre la loro fede, grazie al sostegno del loro vescovo, e grazie soprattutto ai frutti dell’indispensabile collaborazione con gli altri preti, i laici e i diaconi.

Ma per altri preti, “la molla si è rotta” e la loro esperienza spirituale, psichica e fisica, può diventare molto pesante”.

In un altro passaggio scrive: “Un prete va in pezzi quando perde le sue relazioni essenziali: con Dio, prima di tutto, poi con il proprio vescovo e con i confratelli, nonché con i collaboratori e gli amici laici. La rottura è quindi presentata come carenza o impoverimento grave, della dimensione relazionale, in ragione della quale finiscono per essere minati l’equilibrio e la stabilità umana e spirituale”.

Per usare le parole di Papa Francesco: “quei fratelli sacerdoti che ho dovuto accompagnare perché avevano perduto il fuoco del primo amore e il loro ministero era diventato sterile, ripetitivo e quasi senza senso”. (dal discorso al Convegno “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”)

Io credo che di fronte a questa analisi così cruda, in cui forse ci riconosciamo, ci stanno le parole di Pietro a Gesù: “Signore, tu sai tutto!”.

Pensando alla nostra vita di preti, mi hanno aiutato alcuni pensieri di Michele Do che ho letto in un libro curato da Silvana Molina e Piero Racca dal titolo: “Per un’immagine di Chiesa da Amare”.

L’ultimo capitolo dal titolo: “Il Sacerdozio nella Chiesa” riporta alcuni appunti di don Do in un incontro con un gruppo di seminaristi il 14 novembre 1992, parliamo di trent’anni fa, ma che a mio avviso possono aiutarci in questa nostra riflessione sul prete.

Don Do scrive: “Toccare il sacerdozio è anche toccare il mistero della chiesa. Occorre distinguere tra ciò che è essenziale e ciò che è necessario, l’essenziale costituisce la sostanza interiore, il necessario serve, ma non in maniera magica, l’essenziale”.

Queste parole mi fanno pensare a quante volte ci siamo chiesti: quale prete per quale chiesa?

Cos’è essenziale e cos’è necessario nella mia vita? Nella nostra vita?

Sempre Do scrive: “La grandezza, il valore, l’altissima dignità del sacerdozio ministeriale consiste nel servire l’essenziale, questa è la sua grandezza, la sua nobiltà” e ancora “I modi del servizio sono tanti, siamo tutti ministri, tutti a servizio dell’essenziale; i modi sono affidati alla capacità e alla fantasia di ognuno. Ognuno deve essere se stesso. Guai a indossare l’abito altrui, non copiamoci!”.

E infine trovo in queste parole una vera boccata di aria fresca: “Siamo chiamati ad essere testimoni, non basta essere funzionari. Il nostro sacerdozio ministeriale deve essere sorretto dal sacerdozio universale (comune, battesimale, aggiungo io), dobbiamo essere irradianti, vivere e far vivere le cose del Regno di Dio, dove si respiri il gaudio…”.

Forse la gente, i giovani si aspettano questo da noi, vedere dei preti felici, perché innamorati di Gesù, solo così potremo realizzare l’invito di Gesù a Pietro: “Seguimi!”.

La ‘sequela Christi’, va vissuta ogni giorno, rinnovando il nostro si, il nostro ti amo al Signore, così come avviene in qualsiasi coppia di sposi.

Papa Francesco ha affermato che, nel mondo, molti preti sono gli autori delle “più belle pagine della vita sacerdotale”, nonostante i momenti di difficoltà, di fragilità”. E nel contempo, ha anche ricordato le inevitabili  ”amarezze del prete” nel discorso ai Parroci di Roma il 27 febbraio 2020, esprimendosi in termini affini al vescovo Daucourt di cui vi ho parlato all’inizio.

Ma vorrei concludere riprendendo alcuni suggerimenti del Papa, rispetto alla vita dei preti e dei vescovi che lui ha suggerito in un suo recente intervento ad un convegno in Vaticano promosso dalla Congregazione dei Vescovi.

“Le quattro colonne costitutive della nostra vita sacerdotale e che chiameremo le “quattro vicinanze”, perché seguono lo stile di Dio, che fondamentalmente è uno stile di vicinanza (cfr Dt 4,7). Lui stesso si definisce così al popolo: “Ditemi, quale popolo ha i suoi dèi così vicini come tu hai me?”. Lo stile di Dio è vicinanza, è una vicinanza speciale, compassionevole e tenera”.

Vicinanza a Dio

Un sacerdote è invitato innanzitutto a coltivare questa vicinanza, l’intimità con Dio, e da questa relazione potrà attingere tutte le forze necessarie per il suo ministero. Il rapporto con Dio è, per così dire, l’innesto che ci mantiene all’interno di un legame di fecondità. Senza una relazione significativa con il Signore il nostro ministero è destinato a diventare sterile. La vicinanza con Gesù, il contatto con la sua Parola, ci permette di confrontare la nostra vita con la sua e imparare a non scandalizzarci di niente di quanto ci accade, a difenderci dagli “scandali”.

 

Senza l’intimità della preghiera, della vita spirituale, della vicinanza concreta a Dio attraverso l’ascolto della Parola, la celebrazione eucaristica, il silenzio dell’adorazione, l’affidamento a Maria, l’accompagnamento saggio di una guida, il sacramento della Riconciliazione, senza queste “vicinanze” concrete, un sacerdote è, per così dire, solo un operaio stanco che non gode dei benefici degli amici del Signore.

Vicinanza al Vescovo

Il vescovo non è un sorvegliante di scuola, non è un vigilatore, è un padre, e dovrebbe dare questa vicinanza. Il vescovo deve cercare di comportarsi così perché altrimenti allontana i preti, oppure avvicina solo quelli ambiziosi. Il vescovo, chiunque egli sia, rimane per ogni presbitero e per ogni Chiesa particolare un legame che aiuta a discernere la volontà di Dio.

L’obbedienza è la scelta fondamentale di accogliere chi è posto davanti a noi come segno concreto di quel sacramento universale di salvezza che è la Chiesa. Obbedienza che può essere anche confronto, ascolto e, in alcuni casi, tensione, ma non si rompe. Questo richiede necessariamente che i sacerdoti preghino per i vescovi e sappiano esprimere il proprio parere con rispetto, coraggio e sincerità. Richiede ugualmente ai vescovi umiltà, capacità di ascolto, di autocritica e di lasciarsi aiutare.

Vicinanza tra presbiteri

È proprio a partire dalla comunione con il vescovo che si apre la terza vicinanza, che è quella della fraternità. Gesù si manifesta lì dove ci sono dei fratelli disposti ad amarsi: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Anche la fraternità come l’obbedienza non può essere un’imposizione morale esterna a noi. Fraternità è scegliere deliberatamente di cercare di essere santi con gli altri e non in solitudine, santi con gli altri. Un proverbio africano, che conoscete bene, dice: “Se vuoi andare veloce, vai da solo; se vuoi andare lontano, vai con gli altri”. A volte sembra che la Chiesa sia lenta – ed è vero –, ma mi piace pensare che sia la lentezza di chi ha deciso di camminare in fraternità. Anche accompagnando gli ultimi, ma sempre in fraternità.

Questa incapacità di gioire del bene altrui, degli altri, è l’invidia – voglio sottolineare questo –, che tanto tormenta i nostri ambienti e che è una fatica nella pedagogia dell’amore, non semplicemente un peccato da confessare. Il peccato è l’ultima cosa, è l’atteggiamento che è invidioso. È tanto presente l’invidia nelle comunità sacerdotali. E la Parola di Dio ci dice che è l’atteggiamento distruttore: per invidia del diavolo è entrato il peccato nel mondo (cfr Sap 2,24). È la porta, la porta per la distruzione. E su questo dobbiamo parlare chiaro, nei nostri presbitéri c’è l’invidia. Non tutti sono invidiosi, no, ma c’è la tentazione dell’invidia a portata di mano. Stiamo attenti. E dall’invidia viene il chiacchiericcio.

L’amore vero si compiace della verità e considera un peccato grave attentare alla verità e alla dignità dei fratelli attraverso le calunnie, la maldicenza, il chiacchiericcio. L’origine è l’invidia. Si arriva a questo, anche alle calunnie, per arrivare a un posto…

Oggi la profezia della fraternità rimane viva e ha bisogno di annunciatori; ha bisogno di persone che, consapevoli dei propri limiti e delle difficoltà che si presentano, si lascino toccare, interpellare e smuovere dalle parole del Signore: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

Mi spingo a dire che lì dove funziona la fraternità sacerdotale, la vicinanza fra i preti, ci sono legami di vera amicizia, lì è anche possibile vivere con più serenità anche la scelta celibataria. Il celibato è un dono che la Chiesa latina custodisce, ma è un dono che per essere vissuto come santificazione necessita di relazioni sane, di rapporti di vera stima e di vero bene che trovano la loro radice in Cristo. Senza amici e senza preghiera il celibato può diventare un peso insopportabile e una contro-testimonianza alla bellezza stessa del sacerdozio.

Vicinanza al popolo

Mi piacerebbe mettere in relazione questa vicinanza al Popolo di Dio con la vicinanza a Dio, poiché la preghiera del pastore si nutre e si incarna nel cuore del Popolo di Dio. Quando prega, il pastore porta i segni delle ferite e delle gioie della sua gente, che presenta in silenzio al Signore affinché le unga con il dono dello Spirito Santo. È la speranza del pastore che ha fiducia e lotta perché il Signore benedica il suo popolo.

Davanti alla tentazione di chiuderci in discorsi e discussioni interminabili sulla teologia del sacerdozio o su teorie di ciò che dovrebbe essere, il Signore guarda con tenerezza e compassione e offre ai sacerdoti le coordinate a partire dalle quali riconoscere e mantenere vivo l’ardore per la missione: vicinanza, che è compassionevole e tenera, vicinanza a Dio, al vescovo, ai fratelli presbiteri e al popolo che è stato loro affidato. Vicinanza con lo stile di Dio, che è vicino con compassione e tenerezza.

Ho voluto darvi alcuni spunti di riflessione prendendoli dal Vescovo Daucourt, da don DO e da Papa Francesco, credo che in questo tempo di quaresima possiamo tornarci sopra e riflettere sul nostro essere preti oggi”.

Termino con questa invocazione allo Spirito di Giovanni Vannucci:

Donaci, o Signore, il tuo Santo Spirito!

Il tuo Spirito illumini la nostra mente,

ci renda attenti alla tua parola,

docili alla tua presenza silenziosa

nella profondità del nostro cuore.

La sua presenza ci riveli la verità delle cose,

ciò che è effimero e ciò che è eterno,

ciò che è illusorio e ciò che è permanente,

ciò che è insignificante e ciò che è essenziale.

Trasformaci in realtà di comunione,

liberi da durezze e intolleranze,

liberi da meschinità e da paure.

Donaci, o Signore Gesù, il tuo Santo Spirito,

e in lui trovi pace il nostro cuore

inquieto e turbato.

Donaci la gioia del cuore purificato e pacificato,

in pace con l’eterno creato.

O Santo Spirito, rivestici del timore di Dio.

Insegnaci che il dono del timore non è la paura,

ma l’umile amore e il rispetto

per la santità del Padre che è nei cieli

e per la sacralità di tutte le sue creature.

Vivifica, o Santo Spirito, la tua chiesa!

Sia più bella di tutti i sogni,

più bella delle lacrime

di chi visse e morì nella notte per costruirla.

Amen!