La lunga Quaresima vissuta nelle parrocchie dovrebbe insegnarci a guardare all’essenziale

Nelle nostre parrocchie abbiamo fermato la “produzione”, abbiamo spento le macchine, tenuto al minimo i freezer e lasciato accese solo quelle di “emergenza”. Una lunga Quaresima non ancora finita. Una notte interminabile e con poche stelle, in attesa della luce pasquale, che non ha ancora iniziato a splendere. La situazione, le decisioni per la salute pubblica, i nostri superiori, i nostri fedeli, la gente, hanno chiesto di modificare la proposta pastorale, di non fare più le cose di prima. Non più tutte quelle Messe domenicali, le attività con i bambini, i ragazzi e i giovani, la benedizione delle case, le sepolture, le celebrazioni comunitarie dei sacramenti. Non più!

E adesso, come possiamo raggiungere le persone nelle loro case? Abbiamo iniziato a improvvisare una diversa pastorale con le possibilità e gli strumenti che abbiamo riscoperto: che abbiamo cercato di mettere in atto in questo tempo, rinascendo digitali autodidatti: Messe, omelie, catechismi.

Ma se ci fermiamo a riflettere, ci accorgiamo che è cambiata non solo una modalità di fare pastorale, un “modo digitale” di fare le cose. Ci accorgiamo che i problemi che tanto ci agitavano (le date delle prime Comunioni, i genitori dei cresimandi, i matrimoni, le benedizioni delle case) sembrano ora evaporati. La catechesi ai ragazzi, con incontri settimanali a ridosso di allenamenti sportivi e attività alternative, il coinvolgimento delle famiglie nelle programmazioni dei percorsi sacramentali, i fidanzati e le loro nozze perfette, l’efficienza di numerose Messe domenicali celebrate in tutte le parrocchie per una comoda partecipazione locale. Tutti quei nostri problemi, per cui abbiamo faticato, discusso, litigato e ci siamo agitati e scontrati fino allo sfiancamento, sembrano non esistere più, svaniti.

Mi ha fatto pensare la provocante riflessione di Battista Galvagno (Gazzetta, n. 13, del 31 marzo), che evidenziava come le statue della Madonna non avrebbero ascoltato le nostre richieste, né avrebbero “fermato” la pandemia con vistosi miracoli. All’inizio mi sembrava rischiasse di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ma in quelle sue riflessioni c’era un forte invito a non tirarsi indietro, ad accettare la fatica estenuante della ricerca umana, a una coinvolgente responsabilità, all’ascolto profondo di guide fidate, lungimiranti e profetiche, per attraversare il grande deserto, per affrontarlo con fede e responsabilità. E poi, il nutrimento del pane del cammino, con la comunione quotidiana alla parola di Dio.

E ora che dovrebbe iniziare la Fase 2? Quando riaccenderemo gli “interruttori” che cosa ripartirà? Sappiamo che non tornerà tutto come prima, e forse anche noi non dovremmo tornare come prima. Ma si tratterà solo di aggiungere un’App pastorale, o pensare ad aggiornare l’intero sistema operativo?

Dice il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, che ci sono due tentazioni: il “continuismo”, tutto come prima: andiamo a recuperare l’auto dove l’avevamo parcheggiata, la rimettiamo in moto e ripartiamo; oppure la “catarsi”, cambiare tutto perché niente va più bene come prima. Il discernimento – ricorda monsignor Zuppi – sarà la strada contro il «si è sempre fatto così». Iniziare a domandarci, allora, che cosa stiamo imparando da questa traversata che è ancora in corso? Su che cosa dobbiamo riflettere come Chiesa, come pastori, come cristiani, come cittadini?

Mi dà da pensare l’incoraggiamento che abbiamo dato (oltre la trasmissione televisiva) della preghiera settimanale e della celebrazione domenicale in famiglia: proposta solo per l’emergenza o considerabile come una riscoperta? Così come la catechesi affidata ai genitori nelle case, è stata solo un ripiego o potrebbe essere una risorsa? Non sarà che questa lunghissima Quaresima potrebbe invitarci a una conversione pastorale?

Onestamente, non sappiamo quale sia la strada migliore da prendere, perché non siamo mai stati in questa parte della storia, e non abbiamo studiato soluzioni per un universale dopo-diluvio. Sentiamo però che dobbiamo salire sulla barca insieme con tutti, prendere posto nella realtà, immergerci nella concretezza della vita, affiancarci alle persone, lasciarci trapassare dalla storia che ci è entrata dentro, come ha fatto Gesù.

Possiamo fare affidamento a quella bussola interiore (lo Spirito Santo) che ci attira verso la stella polare (il Cristo) e anche sul navigatore che abbiamo in dotazione dal Battesimo (il Vangelo), che però non funziona localmente, perché segna sì la meta, ma non gli svincoli.

 

 don Francesco Mollo