Riflessione pasquale per sacerdoti e religiosi

ALBA Data l’impossibilità di fare il previsto ritiro per sacerdoti, diaconi e religiosi, previsto per martedì, monsignor Marco Brunetti invita tutti a prepararsi individualmente alla Pasqua meditando un testo  del compianto cardinale Ballestrero sull’umiltà del presbitero.

LETTERA DEL VESCOVO MARCO

AI PRESBITERI DIOCESANI E RELIGIOSI E AI DIACONI DELLA DIOCESI DI ALBA

Carissimi sacerdoti, religiosi e diaconi,

con l’inizio della Quaresima abbiamo interrotto i nostri incontri presbiterali, pertanto sono alcune settimane che non abbiamo incontri interpersonali.

Io ho cercato di ovviare a questa mancanza fisica telefonando quasi ogni giorno a qualcuno di voi per sentire come stava e scambiare qualche parola, così alcuni di voi hanno fatto nei miei confronti e li ringrazio.

In agenda martedì 31 marzo avevamo il ritiro di quaresima per noi presbiteri e diaconi, guidato da Mons. Viola, Vescovo di Tortona.

In questi giorni l’ho sentito e mi ha descritto la situazione drammatica che sta vivendo la sua Diocesi particolarmente colpita dall’epidemia, ho promesso a lui il nostro ricordo più sincero nella preghiera.

Vorrei invitarvi a cogliere comunque, nel limite del possibile, l’invito a vivere un momento di preghiera e di adorazione in comunione fra di noi dalle nostre chiese o case martedì 31 marzo dalle ore 9.30 alle ore 11.30.

Formiamo così un cenacolo spirituale, uniti nella comune offerta al Signore del nostro desiderio di essere un unico corpo che si dona a Lui e intercede per il popolo che gli è stato affidato.   

Per condividere questo momento vissuto da soli, ma insieme spiritualmente, ho pensato di allegarvi una meditazione fatta, quando io ero giovane ma mi pare di grande attualità,

dal  Cardinal Anastasio Ballestrero, dal tema “Il vero prete è umile” rifacendosi alla figura di

San Giovanni Maria Vianney, patrono dei Parroci.  Potrà essere questo un testo di meditazione per vivere uniti il nostro ritiro spirituale di Quaresima.

Siamo prossimi alla Settimana Santa, che saremo costretti a vivere in maniera diversa dal solito, senza la partecipazione diretta del popolo, così come stabilito dalla Santa Sede e dagli orientamenti della CEI.

A questo proposito vi prego di attenervi alla comunicazione che vi è giunta da parte del Vicario Generale, Mons. Claudio Carena.

Non celebreremo la S. Messa Crismale che sarà posticipata in un’altra data secondo la decisione del Consiglio Permanente della CEI, per non perdere il valore di questo momento fondamentale della vita del presbiterio diocesano.

Io presiederò le funzioni Pasquali al Santuario Madonna della Moretta, coi padri Giuseppini, potendo trasmetterle in streaming.

Molti di voi chiedono per le celebrazioni delle prime comunioni e cresime nel tempo pasquale, su questo daremo delle indicazioni entro Pasqua, valutando l’andamento della situazione di crisi e in comunione con le scelte delle altre diocesi del Piemonte.

Accogliendo la proposta dell’Ufficio Pellegrinaggi Diocesano, abbiamo deciso di trasferire il Pellegrinaggio Diocesano al Santuario di Oropa dal primo maggio al due giugno, sperando che sia possibile.

Cari presbiteri e diaconi, mi rendo conto della situazione strana e anomala che stiamo vivendo, vorrei cogliere l’occasione per dirvi grazie per tutto quello che fate ogni giorno per tener viva la fiamma della fede delle vostre comunità.

Grazie per le catechesi e le celebrazioni che fate con tutti i mezzi a disposizione.

Grazie perché continuate a stare vicino alla gente anche se in modo diverso dal solito.

Grazie per gli atteggiamenti di ascolto, vicinanza e carità che mettete in atto ogni giorno, in particolare verso gli anziani, i malati e i poveri.

Vorrei invitarvi a pregare per Mons. Derio, colpito dal virus e Mons. Debernardi , ammalato in Africa e per tutti i confratelli sacerdoti d’Italia e del mondo ammalati e per quanti sono tornati alla casa del Padre.

La Pasqua, ormai prossima, ci aiuti a porre la nostra speranza in colui che ha vinto la morte e ci ha donato la vita per l’eternità.

Prego con voi e per voi Maria con l’invocazione Pasquale :

 

Regina del cielo, rallegrati, alleluia.

Cristo che hai portato nel grembo, alleluia,

è risorto, come aveva promesso, alleluia.

prega il Signore per noi, alleluia.[2]

 

Buona Pasqua,  

 Alba, 29 marzo 2020

V Domenica di Quaresima

                                                                                         +Marco, Vescovo

 

Il vero prete è umile (Cardinale Anastasio Alberto Ballestrero)

 

Ci siamo proposti di entrare in noi stessi e di entrare in Dio, ma è anche necessario che diamo subito a questo nostro impegno e a questo nostro proposito una concretezza che ci metta dentro una realtà che per noi è dominante ed identificante: noi siamo sacerdoti. Entrare in noi vuol dire dunque entrare in questa nostra identità. Almeno in questa meditazione, vogliamo dare questo senso all’entrare in noi stessi. Non certo per aprire un ennesimo capitolo sull’identità del prete, ma piuttosto per guardare a noi stessi che siamo preti. Incontriamo noi e incontriamo Dio da preti.

 

Il sacerdozio mistero di grazia

 

Cosa voglia dire questo non è facile esprimerlo, però credo che sia opportuno un momento di riflessione per entrare nella drammaticità di questa realtà del nostro essere preti. Come tali siamo colmati da una grazia nella quale il Signore non solo è presente, ma della quale è anche sorgente inesauribile.

Questa grazia ha bisogno di un supporto, non può esistere astratta e isolata. Esiste supportata da una sostanza che è il nostro essere uomini: la trascendenza folgorante della grazia sacerdotale che penetra e intride di sé una creatura umana. Per cui se pensiamo alla creatura ci sentiamo sprofondare, ma se pensiamo alla grazia ci sentiamo portare al terzo cielo, tanta è la grandezza e tanta è la santità del dono. Tutto però è nella indivisibile unità della persona che noi siamo.

Io credo che sia necessario e molto utile fermarci un momento su questa realtà umana, creaturale che siamo come preti. Per fare questa considerazione mi pare che ci possa aiutare un’esperienza sacerdotale particolarmente significativa ed emblematica, quella del santo Curato d’Ars.

Dico subito che ho intenzione di parlare del sacerdozio, lasciandomi un po’ guidare da questa esperienza, accogliendo l’invito del Papa a valorizzare questo centenario e accogliendo anche l’invito di Papa Giovanni che, celebrando il suo giubileo sacerdotale, ci regalò quell’enciclica che è stata un po’ travolta dalle vicende della Chiesa, la Sacerdotii nostri primordia, che forse non abbiamo assimilato e di cui forse abbiamo anche dimenticato l’esistenza. Eccoci allora qui a guardare, attraverso

il prisma del Curato d’Ars, la nostra identità.

 

Il sacerdozio mistero di povertà

 

Sappiamo tutti che il Curato d’Ars era davvero umanamente povero, non perché nato in una famiglia povera, ma perché non dotato umanamente di risorse splendenti. A diventare prete ci ha messo tanto: ha cominciato presto a pensarci, ci è arrivato a 29 anni, con tante traversie nelle quali la sua tenacia a rimanere fedele ad una vocazione che riteneva ricevuta da Dio, urtava contro l’inadeguatezza dei suoi mezzi umani. La sua memoria funzionava poco, la sua perizia nell’intendere e nel discernere funzionava poco di più, il suo itinerario per realizzare la vocazione è stato quindi costellato di umiliazioni senza fine, di sconfitte clamorose, di esami falliti, di recriminazioni di ogni genere. Credo che raramente nell’identificare un prete la componente dell’umiltà abbia avuto tanta parte come nella vicenda di questo santo prete.

Ebbene, entriamo in noi e questa dimensione dell’umiltà come atteggiamento di assoluta verità nei confronti del nostro sacerdozio, come realtà trascendente, vediamo di metterla anche noi a fondamento. Oggi sono cambiati i tempi e le mentalità; si direbbe quasi che il camminare verso il sacerdozio autorizzi, e quasi obblighi ad essere delle persone piene di sé, piene di incondizionata fiducia nelle proprie risorse, piene di sicurezze in tutte le direzioni. E a volte forse ci capita di pensare che nei criteri attitudinali di una vocazione, siano proprio queste qualità a contare: è un carattere sicuro di sé, che non arretra di fronte a nulla, che è lucido, che non conosce discontinuità. Che belle qualità per essere prete! E il povero Curato d’Ars di queste qualità non ne aveva nessuna.

Io non dico che l’ideale del prete debba essere una persona corta di memoria e quasi altrettanto corta di intelligenza e di buon senso. No, ma dico che l’umiltà deve essere una dimensione assolutamente irrinunciabile per essere prete. E non l’umiltà alla fine della vita, ma al principio, al momento della partenza come consapevolezza di non meritare il sacerdozio, come consapevolezza che il sacerdozio è infinitamente più grande di noi, e che nessuno può essere sacerdote bastando a se stesso, ma solo in una comunione dalla quale riceve molto e alla quale è anche tenuto a dare qualcosa. L’umiltà, insomma, che, come diceva S.Teresa, è verità.

 

 

 

 

Il sacerdozio mistero di umiltà

 

Io credo che anche noi dovremmo interrogarci sull’umiltà del nostro sacerdozio. Siamo preti umili? Come questa esperienza dell’umiltà l’abbiamo vissuta e come intendiamo viverla? C’è sempre tempo, è sempre l’ora giusta, è sempre la stagione propizia per radicare e fondare nell’umiltà la grazia del nostro sacerdozio.

L’umiltà è virtù oggi derelitta, è la capofila delle virtù cosiddette passive e per ciò stesso screditata, non più di moda. Eppure bisogna che sia fondamento di un’identità sacerdotale. Sono prete, ma sono anche umile? Mi rendo conto di questo emergere dell’umiltà come intimo convincimento, come condizione di sincerità nell’accogliere, il dono di Dio, come senso di responsabilità nel riceverlo, nel custodirlo, e nel renderlo fruttuoso?

Senza umiltà le ipocrisie crescono, senza umiltà le presunzioni si moltiplicano, senza umiltà le pretese aumentano e si arriva a fare del sacerdozio non un dono dal quale la nostra oblazione incondizionata «usque ad consummationem» viene continuamente ispirata, dal quale la nostra bramosia di successo viene continuamente dilatata. E allora che ne è della mia umiltà di prete? Che osmosi esiste nella mia vita tra il sacerdozio e l’umiltà?

Il santo Curato d’Ars questa esperienza dell’umiltà sacerdotale l’ha vissuta in una maniera sconcertante. Possiamo anche dire che è maturato per questa strada tutti i giorni della sua vita, anche quelli in cui il suo sacerdozio ha conosciuto tentazioni paurose, ha subito scoramenti di disperazione.

Questo giovane prete che a 30 anni ha tanta paura dell’inferno perché è un povero prete, ci deve far pensare. Carissimi, siamo troppo disinvolti e trasferiamo certe sicurezze psicologiche, che possono anche essere ricchezze, a fronte dell’immensità dei doni di Dio che invece devono farci sentire soccombenti, ci devono portare a quel convincimento che Dio è infinitamente grande, che lui solo è Signore e che l’essere prete ci obbliga ad essere felici di essere poveri, miseri, impotenti per rendere così testimonianza alla potenza, all’amore, alla gloria del Signore.

Credo che questo atteggiamento dell’umiltà non sia soltanto un atteggiamento propedeutico a un itinerario vocazionale, ma sia anche un atteggiamento che fa l’itinerario del prete. Nell’umiltà si cresce, nell’umiltà ci si approfondisce, nell’umiltà si acquistano le trasparenze interiori per comprendere noi stessi.

Il sacerdozio mistero di fecondità

 

Da questo punto di vista è anche necessario dire che la comprensione della realtà trascendente del sacerdozio come grazia, come missione, come ministero è una realtà che non finiamo mai di approfondire, di penetrare fino in fondo. Per quanti siano gli anni e le esperienze del nostro sacerdozio il più delle volte non lo abbiamo ancora capito, non lo abbiamo ancora assimilato in tutta la sua ricchezza e in tutta la sua grazia.

Pensiamo per un momento a certe difficoltà che circolano con tanta frequenza: il sacerdote che si trova ripetitivo, annoiato, che si trova stanco di fare sempre le stesse cose, di stare sempre in mezzo alle stesse difficoltà. È evidente che questo deriva da una visione del sacerdozio molto angusta, molto superficiale ed epidermica.

Tutta la misteriosa fecondità del sacerdozio come dono divino, non dovrebbe permetterci di conoscere queste difficoltà e rimanerne prigionieri.

Ripetitivi? Possiamo ripetere dei gesti esteriori, ma il mistero non si ripete. Siamo annoiati delle solite cose? Ma se si approfondisce, se si diventa capaci di vedere dentro con la luminosità dell’umiltà, ci accorgeremo che è un universo sconfinato quello nel quale entriamo, nel quale viviamo ed operiamo e che si identifica coinvolgendoci fino in fondo, fino a quella configurazione piena a Cristo Signore, del cui sacerdozio viviamo e al cui ministero siamo dedicati e consacrati.

E a me pare che questo continuo confronto o, se volete, questa continua tensione tra la povertà e il mistero, tra la pochezza e la potenza, tra l’infermità e lo splendore dovrebbe diventare qualcosa di identificante.

Tutti noi abbiamo certo conosciuto giorni di ebbrezza spirituale.

Che meraviglia essere prete, che incanto, che stupore, che esultanza interiore, che gioia, vorrei quasi dire che estasi, che rapimento! Dovrebbe essere sempre così e l’appiattimento del nostro sacerdozio deriva proprio da questo mancato, continuo confronto tra ciò che siamo come povere creature e ciò che siamo come sacerdoti del Signore.

 

Miseria e grandezza del prete

 

La nostra miseria è necessaria al sacerdozio come il sacerdozio è necessario alla nostra miseria perché così il Signore sempre rimane glorioso e noi ne diventiamo la testimonianza, ne diventiamo, per così dire, il sacramento. Nella vita del santo Curato

d’Ars a questo proposito c’è da fare anche un’altra osservazione.

Questa continua ambivalenza dell’immensità del mistero e della povertà della creatura non laceravano l’unità del suo sacerdozio, ma la fecondavano, la nutrivano e quest’uomo non era mai l’uomo frustrato, stanco, deluso e se i suoi drammi interiori conoscevano momenti di parossismo fino a diventare tentazione di fuga, dentro di lui la contemplazione della sua identità di prete era sempre alta e da quell’altezza derivava quello sgomento che più di una volta lo ha sorpreso e fatto vacillare.

Noi vacilliamo per motivi assai diversi, probabilmente molto meno nobili, molto meno interiori e anche questo deve servire a farci riflettere. Leggendo la vita di questo prete, che non è un prete complessato, sia chiaro, che è un prete monolitico, che non ha mai messo in discussione il dono di Dio, noi siamo costretti a riconoscere che la sua identità di prete l’ha sentita con una chiaroveggenza globale così grande da essere più il frutto di sapienza mistica che non di umana capacità di capire.

Troppe volte noi ci preoccupiamo di capire, ci pare di avere diritto di capire tutto, ci pare di dover capire perché se non si capisce che merito c’è, se non si capisce che possibilità c’è di andare avanti? Se non si capisce che discernimento si può praticare?

Il Curato d’Ars conosceva bene un gesto: quello di gettarsi a terra davanti al tabernacolo proprio per assaporare il mistero di non capire, ma nello stesso tempo la gioia di credere e di essere fedele. Su questa dimensione profondamente mistica dell’intelligenza dell’essere prete noi avremo forse bisogno di ritornare perché questo è il secolo della razionalità: bisogna capire e finché non abbiamo capito ci mettiamo in lista di attesa. Sono convinto che questo discorso è veramente previo e fondamentale. Cerchiamo di farlo oggetto della nostra preghiera, di macinarlo dentro di noi perché l’umiltà della creatura e lo splendore del Signore non appaiano realtà che si mettono in tensione, ma realtà che si integrano in un mistero mirabile di incarnazione, la cui fecondità è il nostro sacerdozio, è il nostro essere preti.

 

 

 

Meditazione del Card. Anastasio Alberto Ballestrero

Il cuore del Curato d’Ars Itinerario di santità presbiterale Corso di Esercizi Spirituali tenuto a Villa Lascaris di Pianezza (Torino) il 10- 15 novembre 1986 (da registrazione).