Il mese missionario a cent’anni dall’enciclica di Benedetto XV

Il “Mese missionario” di questo autunno 2019 è stato proclamato da papa Francesco come “straordinario”. Il motivo di questa accentuazione sta nel fatto che proprio cento anni fa, esattamente il 30 novembre del 1919, papa Benedetto XV, il papa che aveva definito “inutile strage” la prima guerra mondiale, scandalizzando mezza Europa, compresi i bravi cattolici, pubblicava l’enciclica Maximum illud, dedicata interamente alle missioni.

Contrariamente a quanto a volte si afferma non era quella la prima enciclica missionaria in assoluto. Sul tema si era già cimentato parecchi decenni prima papa Gregorio XVI, al secolo Mauro Cappellari, ex monaco camaldolese. Nel 1840 aveva dato alle stampe la Probe nostis. Un’enciclica che, pur con dei meriti, non ha però avuto un grande significato. Cosa che invece si può tranquillamente affermare della Maximum illud, la prima in un secolo, il XX, caratterizzatosi poi da una pluralità di interventi a questo livello alto e impegnativo del magistero, ultimo dei quali la Redemptoris missio di Giovanni Paolo II.

La Maximum Illud si apriva con queste parole :  “La grande e sublime missione che, sul punto di ritornare al Padre, il Nostro Signore Gesù Cristo affidò ai suoi discepoli quando disse: ‘Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura’, non doveva certamente terminare con la morte degli Apostoli, ma durare, per mezzo dei loro successori, sino alla fine dei tempi, cioè sino a quando fossero esistiti sulla terra degli uomini da salvare col magistero della verità”.

Già questa terminologia risente della mentalità e della teologia del tempo, per cui molti aspetti del testo pontificio risultano oggi inevitabilmente superati. Ma nel momento in cui essa veniva pubblicata segnava, per molti aspetti, una vera e propria svolta, per cui si può affermare, senza tema di smentita, che la Maximum illud sta alle missioni come la Rerum novarum sta alla questione sociale. Chi il 30 novembre di quell’anno la prendeva in mano si trovava di fronte un testo innovativo e propulsivo.

Fondamentali e significativi erano soprattutto quattro punti. Il primo concerneva la condanna del feudalesimo territoriale, cioè della divisione dei territori di missione fra le varie Congregazioni religiose, soprattutto maschili. Qui io, là tu, e non pestiamoci i piedi. Il secondo, il rovescio in positivo della medaglia, riguardava l’appello a una vera e sincera collaborazione fra le varie imprese missionarie. Il terzo punto è quello che pone l’accento sull’assoluta necessità di formare un clero indigeno, vincendo la ritrosia per le popolazioni indigene. Il quarto, importantissimo vista l’epoca della pubblicazione, condannava decisamente il nazionalismo dei missionari, che sovente si consideravano più propagatori degli interessi dei Paesi d’origine che portatori dell’Evangelo di Cristo.

Anche nell’ambito delle missioni “ad gentes”, come tradizionalmente vengono chiamate, papa Benedetto XV si mostrò innovatore, aperto alle nuove sfide che nei vari continenti stavano attendendo la Chiesa e i suoi missionari.

don Giampaolo Laugero

docente di storia ecclesiastica allo Sti e all’Issr di Fossano