L’importanza dei settimanali diocesani nelle parole del cardinale Gualtiero Bassetti

Cari amici, care amiche,

è con gioia che sono qui oggi con voi a salutare questa iniziativa editoriale in cui si rinnova “Il Nuovo amico” di Pesaro. Un rinnovamento che è rigenerazione e che arriva in continuità con una storia che è memoria e non museo. Assistiamo qui a un progetto che da trent’anni riunisce tre Diocesi: Pesaro, Fano-Fossombrone- Cagli-Pergola, Urbino-Urbania- Sant’Angelo in Vado. Una comunione che è condivisione di saperi, di esperienze, di risorse economiche ma soprattutto umane. Un circolo virtuoso alimentato dal dialogo e dal confronto che ha saputo non rinchiudersi in particolarismi locali, ma ha saputo guardare ad una progettualità comune, strumento di comunicazione e di pastorale, che dispiega il significato del servizio alla Chiesa attraverso i mezzi della comunicazione sociale.

Voglio suddividere questa mia breve riflessione in due parti. La prima si soffermerà sull’annuncio come racconto che è una prima forma di carità. La seconda sul ruolo dei settimanali nel territorio locale che sono un esempio concreto di “giornalismo di prossimità”.

 

La prima forma di carità: l’annuncio come racconto

 

Iniziamo dall’annuncio come racconto. La Chiesa sta vivendo, senza dubbio, un tempo di “profondo rinnovamento missionario”. Esiste una predicazione che spetta a ciascuno di noi, in quanto battezzati, “come impegno quotidiano”. “È la predicazione informale – scrive Francesco nell’Evangelii Gaudium – che si può realizzare durante una conversazione ed è anche quella che attua un missionario quando visita una casa”. Questa predicazione può avvenire in modo spontaneo in qualsiasi luogo, in ogni momento della giornata e in qualsiasi periodo dell’esistenza.

Questa predicazione si fonda sostanzialmente in un dialogo interpersonale, anzi, in un serio incontro interpersonale. Un incontro in cui si condividono gioie e speranze, preoccupazioni e inquietudini. Dopo questo confronto, scrive il Papa, “è possibile presentare la Parola, sia con la lettura di qualche passo della Scrittura o in modo narrativo, ma sempre ricordando l’annuncio fondamentale: l’amore personale di Dio che si è fatto uomo, ha dato sé stesso per noi e, vivente, offre la sua salvezza e la sua amicizia”. Questa forma di annuncio è soprattutto una testimonianza personale che si traduce in un gesto, in una parola e infine in un racconto (EG, 127-129).

Un racconto che non è sempre uguale. Certamente se rimane a livello di testimonianza avrà una forte impronta di spontaneismo. Cosa succede però se si alza il livello del racconto? Cioè se questo racconto si professionalizza e diventa, addirittura, un’impresa come quella dei giornali o dei telegiornali? E infine cosa accade se questo racconto, invece, supera tutte le mediazioni giornalistiche e si fa diretto attraverso l’uso dei social network?

C’è una regola che vale per tutte queste forme di comunicazione: l’annuncio è sempre una forma di carità; è una forma di amore verso il prossimo, che esprime due realtà: in primo luogo, esprime sempre una relazione con l’altro, perché ogni comunicatore parla e si relazione con un pubblico e non rimane mai solo con se stesso; in secondo luogo, comunica un messaggio la cui portata ci sovrasta sempre perché, a ben guardare, nessun comunicatore è il reale e l’unico proprietario del messaggio ma è, fin dei conti, un medium, un mezzo di trasporto, un luogo di amplificazione. Detto in poche parole: tutti noi ogni volta che comunichiamo, sia che lo facciamo dalla prima pagina di “Avvenire” o dal nostro profilo Facebook, dobbiamo rispondere ad una regola non scritta caratterizzata da due elementi: la carità e la responsabilità.

Da questo punto di vista, è fondamentale il messaggio del Papa per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni del 2017 che aveva come titolo un versetto di Isaia: “Non temere, perché io sono con te (Is 43, 5)”. Questo messaggio, a mio avviso, riuscito a sintetizzare con grande efficacia il clima sociale del tempo che stiamo vivendo e a proporre anche alcune strade pastorali per ogni persona.

Francesco in questo breve messaggio ha indicato almeno tre strade: la prima si caratterizza per la promozione di una “comunicazione costruttiva” che possa favorire un’autentica “cultura dell’incontro”; la seconda, invece, si contraddistingue con l’assoluta necessità di spezzare “il circolo vizioso dell’angoscia” e la “spirale della paura” che si alimenta fissando l’attenzione solo sulle “cattive notizie”; la terza, infine, si caratterizza per la doverosa attenzione alla “buona notizia” che è fonte di speranza e dal netto rifiuto, quindi, della logica “che una buona notizia non fa presa e dunque non è una notizia”. Tutto dipende, invece, dice Francesco, dallo “sguardo” con cui guardiamo la realtà e dal modo con cui la raccontiamo e la divulghiamo.

L’importanza di questo “sguardo” vale per tutti: per i giornalisti professionisti, per gli utenti dei social network e per i semplici lettori. Perché raccontare il mondo in cui viviamo, come ha detto Francesco, significa scrivere ogni giorno “la prima bozza della storia”. E se non c’è la necessaria prudenza si corre sempre il rischio di creare un clima d’opinione divisivo e conflittuale.

Quando infatti Francesco parla di “cultura dell’incontro” e di spezzare la “spirale della paura” come non pensare, ad esempio, alla diffusione di tutti gli stereotipi negativi nei confronti dei migranti e dei rifugiati, dei forestieri e dei poveri? E allo stesso tempo, come non pensare alle semplificazioni estreme, ai giudizi affrettati o alla ricerca, talvolta, di un sensazionalismo che banalizza tutto pur di essere rumoroso e visibile?

La promozione di una “cultura dell’incontro” nel complesso mondo della comunicazione si caratterizza, dunque, prima di tutto, per una narrazione consapevole e responsabile del fatto che si sta raccontando; e poi, in secondo luogo, come ha detto il Papa, dall’«amore per la verità». «Amare la verità – ha affermato Francesco – vuol dire non solo affermare, ma vivere la verità, testimoniarla con il proprio lavoro».

Parlare oggi di verità in un’epoca storica che alcuni hanno definito addirittura della «post-verità» potrà sembrare desueto e fuori luogo ma è, invece, di fondamentale importanza. Come credente, non solo come Vescovo, far riferimento alla Verità significa immediatamente parlare di Gesù che è maestro, via, verità e vita. Come semplice lettore di giornali la questione, oggi, si fa invece più complicata. Soprattutto per quello che riguarda l’informazione su internet.

Pur non essendo un frequentatore della Rete, e senza demonizzare uno strumento così ricco di risorse e innovativo, non posso non essere impressionato, però, da quello che leggo sulla diffusione, sempre maggiore, delle notizie totalmente false che ormai hanno assunto un’incidenza pubblica di rilievo e hanno acquisito perfino un peso nelle elezioni politiche di alcune grandi nazioni come gli Stati Uniti.

Anche se scrivo ancora con la penna e non frequento i social network, percepisco nitidamente le polemiche, i complottismi e le troppe parole cariche di divisione che imperversano sul dibattito pubblico ma che, soprattutto, caratterizzano la comunicazione sul web. Non nascondo che questo mi addolora profondamente perché certi linguaggi, certe offese, sono un segno, non solo di poca maturità, ma anche di una grave disonestà intellettuale.

La critica va bene, serve a crescere, ma la calunnia va rigettata con forza. La critica deve essere seria, ben argomentata e non con parole superficiali che magari diffondono delle bufale. Su questo aspetto bisogna essere netti e chiari: i cattolici sono chiamati a dare testimonianza sempre, anche quando scrivono un post su Facebook!

 

Giornalismo di prossimità: i settimanali e il territorio

 

La rilevanza della comunicazione digitale e dei social network mi permette di passare al secondo spunto di riflessione: la necessità di un giornalismo di prossimità. Oggi, senza dubbio, viviamo in tempi complessi, qualcuno direbbe interessanti. Tempi in cui un patrimonio prezioso e centenario come quello dei settimanali diocesani sembra andare perduto tra la diffusione del digitale ed esigenze di bilancio. Ma non è un destino già scritto, né ineluttabile.

La Chiesa italiana ha a cuore la presenza mediatica sul territorio e ha a cuore i media diocesani, attraverso i quali diffonde il suo messaggio in molte case. In questo senso, pur dando la giusta attenzione alle modalità digitali di comunicazione, tuttavia i settimanali si confermano, ancora oggi, un patrimonio da consolidare e sviluppare, in quella che è una vera e propria ricchezza dell’editoria cattolica.

Già nel Direttorio del 2004, sono ben delineati il ruolo e l’importanza dei settimanali diocesani: “In modo particolare i settimanali cattolici rappresentano ancora oggi un riferimento in molte diocesi. Per lungo tempo hanno costituito il principale presidio comunicativo. Oggi vivono una fase di rinnovamento in un contesto di molteplici e diversificate presenze mediatiche con cui sono chiamati a crescere nella collaborazione e nella sinergia”. (n. 158)

Parole che tredici anni dopo non hanno perso un grammo di freschezza e che continuano a ispirare le azioni e il cammino dei Vescovi su questi temi. Lo abbiamo ribadito anche nel Comunicato finale dell’Assemblea generale della Cei del maggio scorso (22-25 maggio 2017): “L’attenzione dell’Assemblea Generale è stata posta anche sui media diocesani, nella consapevolezza dell’importanza a livello territoriale di poter disporre di strumenti con cui assicurare voce e chiavi di lettura autorevoli, contribuendo quindi alla formazione dell’opinione pubblica”.

I settimanali diocesani continuano a rappresentare un presidio importante sul territorio dove la Chiesa locale vive ed opera, e dove è giusto che abbia la possibilità di esprimersi liberamente e di raggiungere le case, le famiglie, le persone.

Inoltre, non possiamo non notare che la capillarità con cui le testate diocesane sono presenti nel nostro Paese, rappresenta un’occasione unica per raccontare un territorio che conoscono, e lo conoscono perché lo abitano in prima persona. Questo perché chi scrive sui settimanali diocesani, chi parla alla radio locale, chi alimenta il sito internet del quotidiano davvero è “giornalista di prossimità”, che vive il territorio, che conosce le realtà che descrive, che è in relazione con le persone cui si riferisce.

In tal senso, il mandato di carità dei media territoriali è proprio quello di raccontare dal di dentro le periferie, esistenziali e fisiche, e, lavorando in sinergia con i media nazionali (Sir, Avvenire, Tv2000, Radio Inblu), far conoscere ciò che di bello accade anche oltre il confine della provincia. Allo stesso tempo, agire sul territorio, fare informazione ma anche formazione, coltivare il senso di comunità, l’appartenenza ecclesiale, attraverso una passione per il lavoro che si nutra di verità e di rispetto per l’uomo, perché non vi è racconto che non passi attraverso il rispetto della dignità umana senza facili strumentalizzazioni.

E allora qui oggi non celebriamo solo una nuova veste grafica e il nuovo direttore editoriale, che saluto, ma anche e soprattutto la funzione del settimanale come strumento di aggregazione civile. Una responsabilità che è un tratto distintivo del suo operare e che ne certifica l’impegno nella comunità. Dalle pagine de “Il Nuovo amico” esce infatti la voce dei detenuti della Casa circondariale di Pesaro che realizzano l’inserto mensile “Penna Libera Tutti” e “Il Mondo a Quadretti” dal carcere di Fossombrone. So che oggi è presente qui una piccola delegazione di questi ragazzi e li saluto con affetto. Ebbene, quale migliore esempio di ex “cattive notizie” che si fanno oggi promotori di “buone notizie”?

Questi esempi che vengono da Pesaro e da Fossombrone incarnano alla perfezione le parole di Papa Francesco quando ha sottolineato l’importanza della “buona notizia”. Non certo per addomesticare l’informazione ma perché la “buona notizia” è sinonimo di speranza. E la speranza “è la più umile delle virtù, perché rimane nascosta nelle pieghe della vita, ma è simile al lievito che fa fermentare tutta la pasta”.

Cari amici e care amiche, vi esorto dunque a continuare a lavorare insieme per la comunità, raccontando il bene, valorizzando le opportunità offerte da questo nostro tempo, in condivisione di valori, di esperienze, di risorse, di materiali.